Por Alessandra Caputi, Anna FavaCRÍTICA URBANA N.7
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Nel corso dei secoli Napoli intreccia culture diverse, legate alle dominazioni che dal VIII secolo a.C. al XIX secolo si susseguono in città. Civiltà e dinastie si stratificano sul territorio e ne tracciano la morfologia urbana in un mosaico di lingue, tradizioni e consuetudini sociali di cui la città contemporanea è erede
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Napoli e il patrimonio culturale
Malgrado gli sventramenti ottocenteschi, le mutilazioni dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale e quelle generate dalla speculazione edilizia nel dopoguerra, il suo immenso patrimonio sopravvive tutt’oggi in bilico tra recupero e abbandono, fatiscenza e conservazione, preservando una straordinaria mixité sociale nei quartieri centrali. Negli anni del Secondo dopoguerra, la mancanza di alloggi viene usata come pretesto per giustificare una massiccia edificazione del territorio, in deroga al piano regolatore. Il film “Le mani sulla città” (1963), diretto da Francesco Rosi, rappresenta una forte denuncia della corruzione della classe dirigente e dello scempio edilizio compiuto in questa fase.
Con il terremoto del 1980 viene inferta una nuova ferita alla città. Nella prima fase della ricostruzione post-sisma –gli ultimi anni della giunta Valenzi– l’urbanistica ritrova la sua funzione di pianificazione e di controllo dell’attività edilizia in favore dell’interesse collettivo; nella seconda fase, però, si costruiscono inutili infrastrutture con grande spreco di denaro pubblico, e la camorra fa enormi affari. Negli anni Novanta, grazie a Vezio De Lucia, assessore all’urbanistica nella prima giunta Bassolino, ha inizio una nuova stagione per il riassetto urbanistico della città. La lotta all’abusivismo edilizio, la tutela del centro storico e quella delle aree verdi sono i principali ambiti su cui si concentra il lavoro del suo assessorato. Nel 1995 la maggior parte del centro storico (1021 ettari sui 1700 totali) viene incluso nella lista UNESCO con la seguente motivazione: «Considering that the site is of exceptional value. It is one of the most ancient cities in Europe, whose contemporary urban fabric preserves the elements of its long and eventful history. Its setting on the Bay of Naples gives it an outstanding universal value which has had a profound influence in many parts of Europe and beyond».
Nonostante i riconoscimenti formali, però, i luoghi inclusi nella lista Unesco non sono concretamente tutelati, né gli abitanti assistono a un progressivo miglioramento della vita quotidiana. Napoli rimane schiacciata sotto il peso di problemi endemici: l’emergenza rifiuti, durata quasi un ventennio (1994-2012); una rete del trasporto pubblico totalmente insufficiente; molte strade dissestate, spesso interessate da voragini di natura idrogeologica; l’alto tasso di povertà e la disoccupazione, un terreno sempre fertile per la sopravvivenza della camorra. La prima giunta De Magistris, insediatasi nel 2011, eredita una città indebitata, avvolta nel degrado, sia in periferia sia in alcuni quartieri del centro storico (Quartieri spagnoli, Forcella, Rione Sanità). L’assenza di politiche abitative pesa sulla crescita del divario sociale – registrata anche dall’ultimo rapporto Bankitalia di giugno 2019 – e sull’emergenza “casa”. Il patrimonio edilizio pubblico, da strumento imprescindibile per garantire il diritto all’abitare e la permanenza dei ceti popolari al centro storico si converte in una risorsa da monetizzare. Su questa situazione di debolezza sociale nel 2014 si innesta l’ascesa dell’industria culturale e turistica.
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L’avvento dell’industria turistica
Grazie all’aumento dei flussi turistici, alle connessioni internazionali (voli low-cost, treni ad alta velocità, traffico crocieristico) e all’assenza di qualsiasi regolamentazione del fenomeno, Napoli diventa meta del turismo ‘mordi e fuggi’. Il successo letterario di Elena Ferrante, gli spot di Dolce & Gabbana, le serie TV e i set cinematografici ambientati a Napoli, rilanciano a livello internazionale l’immagine della città, a lungo associata all’emergenza rifiuti. Questo rilancio di Napoli, tuttavia, mostra nel giro di poco tempo il pericolo insito nell’industria turistica: un’industria che estrae ricchezza dai territori senza redistribuirla e che si configura come l’unico modello di sviluppo possibile. Una monocoltura dagli elevati costi ambientali e sociali, che provoca la progressiva espulsione degli abitanti, la privatizzazione dello spazio pubblico e la mercificazione del patrimonio culturale. Napoli diventa in breve tempo un punto di osservazione privilegiato per interrogarsi sulle possibili conseguenze negative dell’overtourism. “Destinazione Napoli 2020” è il nome del “Piano marketing strategico per lo sviluppo turistico della Destinazione Napoli”, promosso dall’amministrazione De Magistris in collaborazione con Gesac Aeroporto Internazionale di Napoli.
Secondo uno degli ideatori del documento, l’esperto di marketing e management turistico Josep Ejarque, il concetto di destination management è fondamentale per soddisfare le richieste del mercato: la destinazione deve essere un luogo dove il turista può ottenere delle esperienze. Recentemente, anche a Napoli è esplosa la moda del turismo esperienziale, lo stadio più recente delle pratiche di monetizzazione della condivisione. La experience è una pratica che si è diffusa molto negli ultimi anni, grazie alle dinamiche proprie del capitalismo di piattaforma. Airbnb è divenuta uno dei suoi maggiori promotori, trovando così un ulteriore campo di applicazione della cosiddetta sharing economy: la piattaforma ha creato un vocabolario e un apparato di marketing per mercificare finanche la compagnia che qualcuno è disposto ad offrire per una passeggiata nel quartiere, in un mercato rionale o magari, per i turisti più dissidenti, in qualche quartiere ribelle (ad Atene esiste lo “sweet anarchy tour” di Exarquia).
Il brand Napoli è incentrato sul concetto di autenticità, parola che fa da innesco al dispositivo della mercificazione. Napoli viene venduta come un prodotto autentico: l’autenticità è l’ingrediente da aggiungere alla descrizione delle case, delle pizze, delle strade, del cibo e addirittura degli abitanti, dei mestieri che svolgono, dell’accoglienza che offrono. Una volta inserito questo ingrediente, si specifica che Napoli e i suoi abitanti sono autentici in modo diverso dagli altri. Sono cioè unici: l’autenticità napoletana, come quella di Lisbona o di Barcellona, è un’autenticità unica. Questo processo di rappresentazione eterodiretta e di auto-rappresentazione, promosso attraverso il dispositivo retorico dell’autenticità-unica, dona al patrimonio culturale – materiale e immateriale – un plus-valore economico. Affittare l’abitazione più economica della città (il basso, la tipica abitazione degli strati sociali più poveri, privo persino dell’abitabilità) ad un prezzo maggiorato, ad esempio, è possibile proprio perché si tratta di un’esperienza abitativa autentica. Lo stesso vale per una passeggiata al Rione Sanità: una passeggiata a pagamento, che consente di trascorrere un’esperienza autentica in compagnia di un abitante del posto.
Il patrimonio storico-artistico –tutelato dalla Costituzione tra i suoi principi fondamentali– perde la sua funzione democratica e si trasforma in un brand da far fruttare. Mostre, sfilate di moda, concerti, promozione della tipicità dei territori sono meccanismi di cattura dell’utenza turistica che, attraverso i voli a basso costo, viene riversata a macchia d’olio nella città. In questa dinamica anche il patrimonio abitativo diviene uno strumento necessario alla crescita del settore: attraverso piattaforme come Airbnb e Booking, le case sottratte agli abitanti, soprattutto ai più poveri, si convertono in strutture ricettive extralberghiere. I quartieri in cui a Napoli è esploso il boom delle strutture ricettive extralberghiere, infatti, sono in buona parte ancora abitati da un tessuto sociale fragile. La maggior parte degli annunci immobiliari, offerti sulle piattaforme, si situa nel perimetro Unesco, in particolare in alcuni quartieri popolari come Forcella e Montesanto. Proprio quelli che si stanno svuotando progressivamente per l’aumento degli affitti e degli sfratti. Il tracciato greco-romano del centro storico ha perso buona parte delle originarie attività commerciali, per trasformarsi in una rosticceria a cielo aperto. Lo spazio pubblico, invaso dai dehors di bar e pizzerie, è diventato uno spazio di consumo.
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La svendita del patrimonio culturale
La mercificazione del patrimonio in chiave turistica si intreccia inevitabilmente con le politiche economiche di austerity. I tagli al finanziamento degli enti locali, l’imposizione del pareggio di bilancio e la rigida sorveglianza degli enti statali in merito alle politiche adottate dai comuni nella gestione della proprietà pubblica contribuiscono a consolidare una concezione del patrimonio che guarda alla valorizzazione economica piuttosto che alla tutela. A Napoli questo processo ha un riflesso anche nella svendita del patrimonio immobiliare pubblico – oggi appetibile per chi vuole investire nel turismo – e nella progressiva riconversione in chiave turistica di quello della Curia e delle numerose arciconfraternite presenti in città. Il Comune di Napoli vanta un patrimonio di circa sessantamila immobili, dei quali circa la metà versa in uno stato di abbandono, mentre buona parte è in concessione a soggetti privati, spesso a prezzi irrisori; un’altra parte ancora è in vendita. Come molti comuni del Sud Italia, il Comune di Napoli è in deficit, motivo per il quale si fanno sempre più insistenti le pressioni dall’alto affinché siano intraprese politiche di valorizzazione e di alienazione del patrimonio immobiliare pubblico. Come se non bastasse, la Curia e le numerose arciconfraternite presenti in città detengono la parte più consistente del patrimonio immobiliare privato e ne gestiscono la riconversione turistica, forti di un regime fiscale speciale e oltremodo vantaggioso. Prenderemo in esame alcuni esempi per illustrare questa situazione.
Napoli Sotterranea – nel sottosuolo si trova una rete di gallerie, cunicoli, cisterne e ampie cavità di origine greca che si estende al di sotto delle strade e dei palazzi del centro storico. Attraverso Napoli Sotterranea è possibile accedere a una parte di questo tesoro. Napoli Sotterranea, infatti, è sia il nome del sito sia il nome dell’associazione culturale che lo gestisce. Fino a luglio 2015 il sito era di proprietà del Demanio. Successivamente il Comune di Napoli lo ha acquisito insieme ad altre 245 cavità, per la “messa a reddito di tutte le cavità utilizzate dai privati, sia come percorsi turistici che per altri scopi” (parcheggi, depositi, attività commerciali ecc.). A fronte di un fatturato notevole realizzato dalla società, il Comune percepisce un canone di locazione irrisorio: Napoli Sotterranea (denunciata dai suoi lavoratori per averli assunti senza contratto, facendoli figurare come volontari della Onlus, e per averli costretti a lavorare a 40 metri di profondità senza le necessarie misure di sicurezza ) paga al Comune un importo pari a 9.700 euro all’anno, a fronte di un canone di mercato stimato in 93.374 euro annui . La Corte dei Conti, attualmente, sta conducendo un’indagine su trenta cavità per un presunto danno erariale da 30 milioni di euro .
Palazzo Fuga – Il più grande immobile di Napoli, noto anche come Albergo dei Poveri, è uno degli edifici più imponenti d’Europa (ha una superficie di 103.000 mq e una facciata frontale di 400 metri). Fu realizzato nel Settecento per volere di Carlo III di Borbone allo scopo di accogliere i senzatetto e i poveri del Regno di Napoli. Oggi è di proprietà del Comune di Napoli ed è quasi del tutto abbandonato. I progetti che si sono susseguiti nel tempo sono molteplici, ma non hanno tenuto conto di quanto previsto dalla legge regionale n. 65/1980 , secondo cui Palazzo Fuga “conserva la destinazione a servizi sociali, anche in caso di trasformazione patrimoniale” . Nel marzo 2019 il Comune ha stilato un protocollo d’intesa con Cassa Depositi e Prestiti per la valorizzazione dell’immobile : la sua alienazione, sebbene non sia ancora confermata, sembra l’ipotesi più prossima a diventare realtà.
Sant’Antonio a Tarsia – Nel quartiere popolare di Montesanto si trovano la chiesa cinquecentesca e il convento di Sant’Antonio a Tarsia, di cui è proprietaria la Comunità Redentorista di Pagani. Il complesso religioso è stato abbandonato e saccheggiato per circa dieci anni. Nel 2018 un gruppo di senzatetto e migranti lo ha occupato grazie al supporto dei volontari della Rete di solidarietà popolare e degli attivisti del centro sociale Ex-Opg – Je So’ Pazzo. I padri redentoristi hanno tentato in più occasioni di sgomberare i senzatetto: era in corso una trattativa per la vendita dell’immobile con un noto galerista d’arte contemporanea, che l’occupazione rischiava di compromettere . Gli abitanti del quartiere hanno manifestato la loro solidarietà ai senzatetto, aiutandoli a resistere ai tentativi di sgombero. Oggi il potenziale acquirente sembra aver rinunciato all’idea di comprare il complesso religioso. Palazzo Penne – È uno degli edifici più antichi di Napoli ed è situato nel cuore del centro storico, a pochi passi dal Decumano inferiore. Nel 1971 è stato il set del film “Il Decameron” di Pier Paolo Pasolini. Negli anni Novanta Alda Croce e Marta Herling, due intellettuali schierate in prima linea nella difesa del patrimonio storico-artistico, impedirono che il palazzo fosse trasformato in un albergo e che gli abitanti fossero sfrattati. Nel 2002 l’edificio fu acquistato per 5 milioni di euro dalla Regione Campania, ma da allora – nonostante uno stanziamento di 13 milioni di euro per il suo recupero – è stato abbandonato all’incuria. Recentemente i comitati del quartiere ne hanno ripulito il giardino, liberandolo dai rovi, e hanno organizzato una conferenza stampa per chiedere che il palazzo venga sottratto al degrado e destinato a scopi sociali e culturali.
Zia Ada – In pieno centro storico, in piazza Miraglia, si trova un edificio di proprietà della confraternita Servi di Maria. In passato il palazzo era stato adibito a studentato cattolico, in seguito è stato abbandonato per alcuni anni (a eccezione del quinto piano, dove abitano ancora alcune suore). Nel 2016 è stato occupato da quaranta persone (tra cui 8 bambini) sostenute da Magnammece o’ pesone, un movimento di lotta per la casa. La confraternita ha provato a cacciare via gli occupanti per affittare l’edificio a un noto albergatore della zona. A distanza di tre anni, dopo alcuni tentativi di sgombero e altrettante manifestazioni di solidarietà del quartiere, l’occupazione persiste. Magnammece o’ pesone, che ha raccolto 5mila firme a sostegno di questa battaglia con la petizione “Non di soli alberghi vive una città”, ha dichiarato: “Siamo felici della presenza dei turisti in città, ma vogliamo continuare ad abitare nei nostri quartieri. Questi edifici sono stati donati alla Curia per fini sociali, non per speculazioni economiche”.
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Conclusioni
Rispetto ad un processo che sta cambiando il volto del centro storico di Napoli, l’attuale amministrazione comunale non pone rimedi né regole. L’amministrazione De Magistris ha vantato la crescita del turismo come un fiore all’occhiello della sua amministrazione senza interrogarsi sulle sue conseguenze. Come se non bastasse, il Presidente della Regione Campania ha rimproverato al Comune di non aver fatto abbastanza perché Napoli raggiungesse il primo posto in Italia per numero di presenze turistiche . Oggi le parole d’ordine delle istituzioni sono “distribuire i flussi turistici” e “decongestionare il centro” – cioè indirizzare i turisti verso nuovi quartieri popolari da stravolgere in pochi anni – ma nessuno mette in dubbio il mantra della “crescita”. Di contro, alcuni abitanti del centro continuano a reclamare il proprio diritto ad abitare nei quartieri storici, a vivere lo spazio pubblico senza dover consumare nei dehors e a svolgere attività lavorative non necessariamente rivolte ai turisti. Da giugno 2018, Napoli è entrata a far parte della rete SET (Set – Sud Europa di fronte alla Turistificazione), fondata da associazioni e collettivi di alcune delle città del Sud Europa che in questi anni sono state travolte dall’ondata turistica (tra cui Valencia, Siviglia, Palma, Lisbona, Malta, Malaga, Barcellona, Venezia, Firenze). La rete SET intende promuovere a livello internazionale una riflessione critica sul fenomeno della turistificazione e un coordinamento di analisi e pratiche alternative. La lotta contro la turistificazione procede con le battaglie per il diritto all’abitare e contro la privatizzazione del patrimonio pubblico. Una strategia politica per il recupero e la tutela del patrimonio che eviti dismissioni, gestioni privatistiche, speculazioni immobiliari o incentivi alla gentrificazione non è possibile, infatti, senza che essa sia accompagnata da politiche abitative mirate alla tutela del tessuto sociale in città.
Al dispositivo biopolitico della città mercificata, in cui ogni singolo cittadino contribuisce alla valorizzazione del brand Napoli attraverso un’inserzione su Airbnb, l’offerta della propria casa o di un’esperienza imperdibile, si contrappone la battaglia, spesso impopolare, di chi non intende rinunciare al diritto alla città e al concetto di democrazia stessa.
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Nota sobre las autoras
Anna Fava, laureata in Filologia moderna, è stata borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filososfici, ha curato Costituzione di Salvatore Settis e ha co-curato La lunga guerra per l’ambiente di Elena Croce; dottoranda in Filologia moderna con un progetto di ricerca sul linguaggio dell’ambientalismo italiano; ambientalista, è membro dell’associazione Italia Nostra e attivista della rete SET – South Europe facing Touristification.
Alessandra Caputi, laureata in Storia dell’ambiente, è stata borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici, ha co-curato La lunga guerra per l’ambiente di Elena Croce; co-curatrice della collana “Pan – Paesaggio ambiente natura”; è membro dell’associazione ambientalista Italia Nostra e attivista della rete SET – South Europe facing Touristification.
Para citar este artículo: Alessandra Caputi, Anna Fava. Napoli in vendita tra turismo e privatizzazioni. Crítica Urbana. Revista de Estudios Urbanos y Territoriales Vol.2 núm.7 Patrimonio. A Coruña: Crítica Urbana, julio 2019. |