Por Giorgio de Finis |
CRÍTICA URBANA N.13
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“Può sembrare singolare che si affronti il tema del diritto alla città partendo dai musei. Non sono questi, ed in particolare quelli di recente costruzione, dall’“effetto Bilbao” in poi, il fiore all’occhiello delle città globali in competizione, i nuovi non-luoghi della cultura spettacolarizzata disegnati da progettisti globetrotter (che spesso si trasformano in veri e propri brand), per attrarre i flussi del turismo di massa, contribuendo ad aumentare il ‘prestigio’ e in ultima istanza il valore immobiliare della metropoli che li ospita?”
Eppure, come proveremo a dimostrare, è possibile ripensare la città passando per il museo. Naturalmente i casi che prenderemo in esame sono sui generis, decostruiscono e ricostruiscono l’istituzione museale[1], ridefinendone funzioni e modalità. Si tratta di progetti che non nascono a tavolino e mantengono ciascuno un forte legame con la realtà locale in cui si collocano; sono tutti, potremmo dire, con un termine caro alla critica d’arte, site specific, nati e pensati per rispondere a precise condizioni ambientali e socio-culturali che ne hanno determinato la forma e l’uso. Eppure, questo loro essere con i piedi ben piantati per terra non gli ha impedito, ognuno a suo modo, di guardare al cielo, manifestando una forte vocazione ideale, utopica, costituente. Prima ancora di divenire “pezzi di città” essi si sono presentati come “modelli” di città, dispositivi artistici a scala urbana, sperimentazioni politiche in assenza di gravità o di attrito.
Non potremo, affrontando la questione del futuro di questi “case study”, non tenere conto dell’effetto che le norme di disciplinamento sociale imposte dalla Covid-19 rischiano di produrre sui dispositivi basati sulla relazione. Lo scarto temporale che in pochi mesi si è prodotto nelle modalità di fruizione degli spazi urbani, ha reso le parole d’ordine della “condivisione” e della “partecipazione” sospettabili di implementare comportamenti che nell’opinione di molti sono oggi considerati irresponsabili e socialmente pericolosi.
Il museo sulla Luna
Metropoliz è una occupazione situata nel quadrante di Roma est. Le abitazioni delle circa duecento persone che vi risiedono illegalmente sono state ricavate negli spazi industriali dismessi di una fabbrica di salami. È un villaggio che, come quello immaginato da René Goscinny e Albert Uderzo, resiste ai romani. Lo fa chiudendosi alle spalle il grande cancello d’ingresso e confidando su una speciale “pozione magica”, la presenza dell’arte. Metropoliz, dal 2012, ospita infatti il MAAM il museo dell’Altro e dell’Altrove. L’Altrove è la Luna, che Metropoliz ha “raggiunto” nel 2011 con il proprio razzo, opera collettiva realizzata nell’ambito del cantiere cinematografico e d’arte “Space Metropoliz”[2]. L’Altro è, invece, ciascuno rispetto a tutti gli altri, un modo per sottolineare il valore della differenza al di là di ogni possibile “noi”, essendo il gruppo e la comunità sempre escludenti. Il MAAM è il primo museo abitato del Pianeta Terra, con una collezione di opere, fuse ai muri e agganciate ai macchinari, che da tempo ha superato il mezzo migliaio[3]. Una barricata che gli artisti più diversi hanno costruito insieme per proteggere l’occupazione abitativa, un’opera corale che ha contribuito a re-immaginare il museo del XXI secolo riportando l’arte alle sue origini più antiche, quando nelle caverne, conviveva con la vita e l’abitare. Il MAAM ha anche un’altra funzione, però. Opposta all’idea del recinto fortificato. Quella di aprire la porta di Metropoliz e invitare la città ad entrare, contrastando l’effetto “enclave” che sempre minaccia questo avamposto al pari delle ruspe.
“La mia visita di oggi è stata un’esperienza unica, straordinaria. È la prima volta che vedo un luogo di questo genere, un luogo così ricco di opere d’arte, un luogo in cui l’arte protegge. Perché questo luogo, con l’aiuto dell’arte, accoglie degli esclusi…Il MAAM è un super-luogo” (Marc Augé)[4].
Da marzo anche il museo sulla Luna è fermo. I “metropoliziani” rispettano il lockdown, come gli abitanti di tutte le altre occupazioni romane, Caravaggio, Casal Boccone, il vicino Quattro Stelle. Qui il SARS-CoV-2 non ha colpito nessuno e la vita scorre con le difficoltà di sempre, aggravate dall’impossibilità di recarsi al lavoro, che per molti vuol dire, giorno per giorno, avere la possibilità di mettere insieme il pranzo con la cena. Ma in queste realtà solidali non c’è bisogno di riscoprire l’aiuto reciproco, né la capacità di auto-organizzarsi. Inoltre, la pandemia un regalo glielo ha fatto. Quello di allontanare la minaccia dello sgombero coatto, previsto, nel cronoprogramma della prefettura, per febbraio scorso. Immagino la “città meticcia” approfittare della quarantena per tirare il fiato, concedendosi qualche giorno di tregua prima di riprendere la lotta senza quartiere per il proprio diritto ad esistere.
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Il museo dovunque
DIF è l’acronimo del museo diffuso del comune di Formello, uno dei tanti paesi che figurano nella vasta area della città metropolitana di Roma Capitale. La sua collezione è pubblica, ma le “regole del gioco” di questo museo nato nel 2015 per volontà dell’allora primo cittadino Sergio Celestino, frequentatore ed estimatore del MAAM, prevedono che ciascuna opera sia “adottata” da un membro della comunità che ne diventa custode e beneficiario. Si tratta di un’adozione e di un beneficio a tempo, ma l’idea è che questo patrimonio di tutti fosse goduto e al tempo stesso curato da tutti, è alla base di un nuovo modello di condivisione dei beni pubblici e di una presa in carico collettiva degli stessi. Un museo “sostenibile” perché fatto insieme, che non ha bisogno di una sede, della guardiania e della ditta di pulizia, un dispositivo relazionale che ricorre all’arte come a un passepartout per consegnare, nei tempi e modi convenuti, ciò che è privato ad un uso pubblico.
“… l’ape, simbolo del DIF, ha impollinato spazi pubblici e privati, dando vita a eventi, mostre, interventi site-specific e performance, veicolando l’idea che anche l’arte contemporanea possa fare la sua parte nel creare legami e socialità, perfino in quella strana cosa che chiamiamo città metropolitana. Per questo […] man mano che prendeva forma l’idea di un museo diffuso mi sono convinto con crescente entusiasmo a sostenerlo e realizzarlo insieme: perché credo che questo modo di abitare e vivere il territorio […] abbia bisogno di utilizzare ogni strumento possibile per rafforzare, stimolare e reinventare il sistema delle relazioni di cittadinanza”[5].
Il Corviale Capitolino
Corviale è un palazzo nato con la patente di città, ma che è rimasto sempre solo un grande condominio. Non è diventato mai nemmeno un quartiere. Progettato da Mario Fiorentino è un edificio di edilizia economica e popolare lungo 1 km che si dice abbia privato Roma della piacevole brezza portata dal Ponentino. L’utopia autarchica di questa nave che doveva avere tutto a bordo si è infranta prima del varo, condannata a farsi ghetto col suo carico di umani poveri e problematici. Come riportare il transatlantico Corviale in città? Come collegare le due Rome (le due città di cui parla Marc Augé sempre più distanti, la “città-mondo”, quella che appartiene di diritto alla globalizzazione e che fa rete con tutti gli altri luoghi attraversati dai flussi legati al turismo, alla comunicazione, al commercio, e il “mondo-città”, fatto di enclave marginalizzate – non di rado, invero, molto vitali)? Con l’architetto Baglivo abbiamo immaginato un gesto fortemente simbolico, oltre che funzionale alla riattivazione dei collegamenti tra il centro e questo pezzo di periferia, in occasione di un concorso per la riqualificazione di Corviale (bando che, va detto, non abbiamo vinto). L’idea è stata quella di ripartire dal mito di fondazione della città, da Romolo e Remo allattati dalla lupa e dall’uccisione di uno dei gemelli ad opera dell’altro. Abbiamo immaginato che a Corviale vivesse la progenie di Remo, quella esclusa dal solco tracciato dall’aratro insanguinato di Romolo. Per rigenerare Corviale occorreva ripartire dalla giustizia, rappresentata dalla bilancia, anch’essa doppia. Un risarcimento simbolico prima che architettonico e urbanistico. Da qui la proposta del Polo museale di Corviale Roma Capitale che muove dall’idea che sia possibile condividere con i cittadini dell’“altra” Roma i gioielli di famiglia che Romolo fratricida ha tenuto per sé. Spostare sul tetto di Corviale il Galata morente, un pezzo dei Musei Capitolini (il museo che ha sede al km zero della città) era un modo per riconnettere il centro storico e la periferia, per mezzo di un “innesto” capace di mettere fine all’isolamento e portare nuova linfa a entrambi, rivitalizzando l’antico con il moderno e viceversa.
“Non un museo qualunque, ma una succursale dei Musei Capitolini, per questo l’abbiamo chiamato Corviale Capitolino! Qui l’arte è sul tetto, in alto. Il tetto è il punto più panoramico e più libero ed è anche la parte dell’edificio più facilmente controllabile e gestibile. Per arrivarci si deve attraversare verticalmente l’edificio. Così esso vive del flusso dei cittadini che vanno al museo. Finalmente siamo liberi dal commercio o meglio dal fatto che si debba pensare che solo le attività commerciali hanno la capacità di far rivivere le aree dismesse”[6].
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L’Asilo, il museo ospitale
MACRO Asilo è il nome del progetto sperimentale che nel biennio 2018-2019 ha trasformato il Museo di arte contemporanea di Roma in un dispositivo d’incontro ad alta partecipazione, aperto alla città, gratuito, inclusivo, plurale, e sostanzialmente “autogestito”. Invitati ad autocandidarsi, artisti, studiosi, progetti, realtà territoriali, occupano il museo nello spazio-tempo in cui operano. Il museo si limita ad aprire la porta, ad accogliere, a dare asilo alla grande varietà di paradigmi e forme di vita che il contemporaneo, nell’era dell’arte espansa, propone, senza prendere posizione, avallare, giudicare, premiare. Si pone super partes, ad un livello che potremmo dire “metalinguistico”, offrendosi come uno “spazio agonistico” per usare una espressione cara a Chantal Mouffe, e obbligando lo “spettatore” (che in verità qui non è solo “emancipato”, ma cessa in realtà di essere tale) ad una costante attività critica. La multidisciplinarietà contribuisce alla complessità del quadro sempre cangiante che questa caleidoscopica macchina maieutica presenta con un palinsesto che ha in 15 mesi ospitato oltre 5000 eventi (una media di 12 al giorno), seguiti complessivamente da più di 330mila visitatori.
E se il MACRO Asilo ci mostrasse, oltre che un altro modo di vivere il museo, anche un altro modo di vivere la città? Fornendo la prova che una città libera, fruibile, partecipata, collaborativa, pubblica, plurale, aperta non è affatto un’utopia, o peggio una follia. E che ogni istituzione culturale (ma anche scuole, piazze, giardini pubblici, condomini) avrebbero potuto farsi “asilo”, contribuendo alla crescita culturale e democratica della società e della città[7].
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Rif-ondare la città inclusiva
Rif museo delle periferie è un progetto che nelle intenzioni dell’amministrazione capitolina dovrebbe nascere a Tor Bella Monaca, quartiere noto alle cronache a causa della presenza diffusa della criminalità organizzata, ma anche ricco di realtà territoriali culturali e solidali.
Il logo del Rif è una freccia circolare, un anello; si ispira al Grande Raccordo Anulare, ma vuole rappresentare anche il solco più ampio di un aratro ideale che includa tutti i territori della Capitale. Il Rif suggerisce l’idea di una “rifondazione” della città, un auspicio e un impegno ad abbattere muri ricomponendo un tessuto urbano lacerato e non dialogante. In tal senso si muove in linea con i progetti artistici precedentemente trattati, tutti con una dichiarata vocazione politica e sociale.
Scrive al riguardo Carlo Cellamare: “L’immagine tradizionale del museo è di un luogo statico, e tendenzialmente noioso, dove si mettono in mostra alcuni prodotti, siano essi culturali, artistici, scientifici, ecc. È tendenzialmente, nei luoghi comuni, un luogo passivo, dove si “consuma” qualcosa che altri hanno prodotto.
La proposta del RIF è invece di tutt’altro segno, ovvero vuole essere un luogo attivo dove si produce cultura e non necessariamente la si mette in mostra (anche se sarà utile che ci siano anche spazi espositivi), dove si discute e si collabora, dove si scambia, si ragiona e si dibatte. Un luogo quindi vitale che trae la sua linfa proprio dalle periferie.
In questo senso il RIF parte da una doppia provocazione, dal proporsi come “museo” e come museo “delle periferie”, come se delle periferie si possa fare un museo. In realtà, si tratta appunto di una doppia provocazione, in primo luogo perché, come si è detto prima, le periferie sono da ripensare fuori dagli stereotipi ormai consolidati e, in secondo luogo, perché sono oggi (sicuramente a Roma) il luogo della produzione culturale, innovativa e significativa, a fronte ad esempio di un centro storico che è prevalentemente un luogo del consumo culturale, per lo più frequentato dai turisti.
[…] In questo senso una componente importante e costitutiva del RIF deve essere un “laboratorio di quartiere”, luogo di incontro, coagulo e collaborazione tra i diversi soggetti, progettualità ed iniziative che si muovono o si potranno attivare nel quartiere, siano essi di origine istituzionali o emergenti dall’azione degli abitanti o di altri soggetti interessati al territorio. Un luogo quindi di elaborazione da e per il quartiere, dove il tema culturale diventa la leva ed il punto di partenza per un approccio integrato ai problemi del contesto di vita ea una “rigenerazione dal basso”. È questo un punto essenziale: il RIF non può essere un luogo estraneo al quartiere (come in parte di fatto è il Teatro Tor Bella Monaca), ma deve essere radicato nel quartiere, anzi da esso, dai suoi problemi e dalle sue voci deve trarre linfa vitale e prospettiva di azione.
D’altra parte, si tratta di un “laboratorio” che vuole essere una sperimentazione di riferimento per tutta la città, sia nel senso che possa essere esportato e replicato in altri contesti urbani di Roma, sia nel senso che deve essere alimentato dalle esperienze e dalle progettualità delle altre “periferie” romane. Bisogna infatti smontare una logica puramente localista e pensare a questo luogo come una “casa”, un riferimento utile ed uno spazio di lavoro, per tutte le periferie, dove agiscono e si incontrano tutte le periferie della città […].
Su questa linea di superamento dei localismi, è importante che il RIF abbia un respiro nazionale e internazionale, come luogo e occasione di scambio e confronto con altre realtà e con altre
esperienze, traendone spunto, moltiplicando la riflessione, allargando il dibattito […].
Il RIF vuole essere il luogo in cui parlare dalle periferie al mondo”8[8].
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Conclusioni
Quanto sinteticamente riportato dovrebbe bastare a dimostrare come un ripensamento del museo possa risultare tutt’altro che estraneo alle questioni sollevate dal dibattito sul diritto alla città[9]. Operando come contromisura per arginare la riduzione progressiva dello spazio pubblico, i musei di cui abbiamo parlato, propongono una idea di città che metta al centro l’“abitare”, considerano l’ecosistema urbano un bene comune, combattendo l’idea di una città da sfruttare e mettere a profitto.
Quelli presentati, si potrà obiettare, sono “musei-fai-da-te”, come li ha chiamati Carla Subrizi[10], ma in questa direzione mi pare si muova anche la nuova definizione di museo discussa lo scorso ottobre a Kyoto dall’assemblea generale dell’ICOM (definizione che riportiamo di seguito, rifiutata purtroppo dall’Italia):
“Museums are democratising, inclusive and polyphonic spaces for critical dialogue about the pasts and the futures. Acknowledging and addressing the conflicts and challenges of the present, they hold artefacts and specimens in trust for society, safeguard diverse memories for future generations and guarantee equal rights and equal access to heritage for all people. Museums are not for profit. They are participatory and transparent, and work in active partnership with and for diverse communities to collect, preserve, research, interpret, exhibit, and enhance understandings of the world, aiming to contribute to human dignity and social justice, global equality and planetary wellbeing”.
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[1] Pujia include questi musei “altri” o “anti” tra le produzioni della corrente artistica che definisce critica istituzionale di ultima generazione. Cfr. Pujia, S., Dal cubo bianco al cubo nomade. Pratiche di decostruzione dell’istituzione museale, Sensibili alle foglie, Roma, 2017.
[2] “Space Metropoliz” (www.spacemetropoliz.com) che – a detta degli autori – avvia l’era delle migrazioni esoplanetarie.
[3] Donando un’opera gli artisti di fatto sottoscrivono una petizione a favore dell’occupazione e dei suoi abitanti.
[4] Cfr. Marc Augé, Il MAAM è un super-luogo, in de Finis, G. (a cura di), MAAM Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia, Bordeaux edizioni, Roma, 2017.
[5] Cfr. Celestino, S., La generosità di chi dona e di chi riceve, in de Finis, G. (a cura di), DIF/ il museo dovunque, Insideart, Roma, 2017.
[6] Testo di Carmelo Baglivo tratto dalla conversazione con G. de Finis, C. Prati e B. Servino Surfando sulla tavola rotonda, in de Finis, G. (a cura di), Atlantide, Bordeaux edizioni, Roma, 2015.
[7] Se Macro Asilo non fosse stato chiuso “preventivamente” sarebbe stato capace di funzionare nell’attuale regime di distanziamento sociale? La “piazza” di Macro Asilo si sarebbe potuta temporaneamente spostare online, rimanendo uno spazio aperto, plurale, democratico pari all’originale.
[8] Cfr. Cellamare, C., Ripensare le periferie, ripartire dai territori, in RIF, il museo delle periferie di Tor Bella Monaca, a cura di G. de Finis, MACRO ASILO DIARIO, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 2019-2020.
[9] Al tema il MACRO Asilo ha dedicato numerosi incontri, anche sperimentando gli strumenti della demopraxia proposti da Michelangelo Pistoletto e Cittadellarte.
[10] Subrizi,C., I musei-fai-da-te, in de Finis, G., Benincasa, F., Facchi, A. (a cura di), Exploit. Come rovesciare il mondo ad arte. D-istruzioni per l’uso, Bordeaux edizioni, Roma, 2015.
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Nota sull’autore
Giorgio de Finis. Antropologo, artista, curatore indipendente. Autore di dispositivi museali e relazionali, da oltre vent’anni si occupa del fenomeno urbano. Ha ideato il MAAM e diretto Macro Asilo, il progetto sperimentale che per due anni ha ripensato il Museo di arte contemporanea di Roma.
Para citar este artículo: Giorgio de Finis. Repensar la città passando per il museo. Crítica Urbana. Revista de Estudios Urbanos y Territoriales Vol.3 núm. 13 Derecho a la ciudad. A Coruña: Crítica Urbana, julio 2020. |