Por Nives Monda |
CRÍTICA URBANA N.12
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“Nella città di Napoli vivono circa duemila senzatetto: persone che dormono per strada, sotto i portici della Galleria Principe, nella Galleria Umberto, intorno alla Stazione centrale, sul ciglio dei negozi chiusi e ovunque ci sia un minimo di riparo.”
In città esistono tre centri di accoglienza[1] che a fatica coprono circa 350 posti letto, oltre che numerose persone e associazioni che attraverso il volontariato sono attive in questo ambito. Da anni a più voci si chiede al Comune di avviare politiche concrete che consentano alle persone senza tetto condizioni di vita dignitosa: un tetto, un letto, un pasto caldo, le cure mediche necessarie, oltre che spazi adeguati per garantire la propria igiene e socialità. Una questione che attende ancora risposte oggi quanto mai urgenti.
In questi giorni dell’emergenza sanitaria, porto pasti caldi alle persone che dormono ai portici del Duomo. Incontro tanti volti e tante mani, distribuisco i piatti, accenno sorrisi dietro la mascherina, mi muovo lentamente, non cerco lo sguardo di chi sta soffocato dietro le coperte e i cartoni.
Ho imparato che non è giusto spingere per creare un contatto, questa è una nostra esigenza, mentre chi vive in strada vede tanta gente andare e venire, è nomade tra i nomadi, non percepisce il tempo e lo spazio così come lo percepiamo noi.
Il maggior errore che la cosiddetta società civile commette quando si relaziona a una persona che vive in strada è di volerla condurre sul suo terreno, quello della normalità, provando a farla diventare una di noi. E’ successo esattamente così con Gennaro che, dopo avere vissuto per tanti in strada, ha avuto l’occasione di una vita nuova, ha trovato lavoro in un ristorante, una stanza in un centro di accoglienza e poi, con la sua fuga, si è sottratto a questa imposizione, tornando di nuovo alla strada.
Anche la definizione non è adatta: il termine senza fissa dimora, a esempio, non si può applicare a Maite, il ragazzo nigeriano che vive al Duomo da almeno sei anni, mi ricordo perfettamente il primo giorno che l’ho notato, alto, in perfetta forma fisica, chiedeva l’elemosina con un largo sorriso, bello. Nel tempo, l’ho visto abbassarsi di statura, farsi curvo, accartocciarsi, perdere interesse per le persone che passano e persino per il cibo che gli portiamo, fino a sedersi per sempre su quella lastra di marmo da cui non si sposta quasi mai, lì sotto i portici. Altro che senza fissa dimora, Maite dimora in maniera fissa sulla lastra di marmo.
Del resto, è prevalentemente questo l’approccio istituzionale: reintegrativo e riabilitativo. I dormitori, se da un lato svolgono una funzione fondamentale per una soluzione sui grandi numeri, dall’altro costringono inevitabilmente le persone a una reclusione. Per alcune delle persone che dormono in strada, la libertà di movimento è più importante del cibo stesso.
Ci sono fortunatamente tante esperienze divergenti da questo tipo di approccio.
A esempio, Scarp de Tenis, il giornale fatto da chi vive la strada, è un progetto della Caritas, attuato a Napoli dalla cooperativa La Locomotiva, che prevede l’emancipazione dei senzatetto facendoli diventare, attraverso un laboratorio di scrittura, giornalisti e redattori di un mensile. I giornalisti di strada si preoccupano anche della vendita del giornale, che viene fatta anch’essa in strada come i vecchi strilloni, e percepiscono un introito che consente loro di mantenere la propria casa. A questo progetto, è infatti legato un percorso di seconda accoglienza, cioè la creazione di unità abitative per gruppi piccoli di conviventi, che, provenienti dai dormitori e inclusi attivamente nel progetto Scarp, abbiano dimostrato la volontà e la capacità di rendersi autonomi.
Un altro progetto interessante, nato nell’ambito dei beni comuni, è l’accoglienza di un piccolo gruppo di homeless che vengono coinvolti nella manutenzione dello spazio e nella gestione di alcune attività a Santa Fede Liberata, nel pieno centro storico di Napoli, un complesso ecclesiale destinato a ospitare nei secoli passati donne che, per la loro vita considerata dissoluta, venivano recluse per essere sottratte alla vista delle persone perbene. Lasciata per decenni al degrado e all’incuria, la struttura è stata ripulita da un comitato di quartiere che, nelle sue meravigliose stanze, mette in campo tantissime attività di resistenza politica e urbana al fianco degli abitanti. Nella struttura, è anche presente un presidio popolare per la salute.
Queste esperienze dimostrano che si può promuovere anche una progettualità stellare, cioè un insieme articolato di residenze integrate nel tessuto urbano, in cui, lavorando per piccoli gruppi, si effettui una forma di accoglienza diversa. L’idea potrebbe essere, in alcuni quartieri e con progetti specifici, quella di prevedere il riutilizzo di abitazioni e strutture in disuso, facenti parte del patrimonio pubblico che consentano ai senzatetto di non abbandonare la zona che sono soliti frequentare. Il cibo potrebbe essere assicurato da gruppi di prossimità, organizzati dalle Municipalità o dal terzo settore convenzionato. Inoltre, invece di affidarsi alle grandi mense che, per forza di cose offrono un pasto standardizzato, si potrebbero istituire delle giornate di mensa popolare all’interno dei ristoranti del quartiere che sono tanti e che, a turno sulla base di un calendario settimanale, opportunamente sostenuti dalle Municipalità e del Comune, potrebbe ospitare queste persone, insieme a altri ospiti “paganti”. Sarebbe questo un progetto di grande impatto emotivo per le persone coinvolte e in cui il cibo sarebbe il tramite naturale per una più facile integrazione. Infine, le botteghe artigiane potrebbero rendere disponibili i loro spazi per attività di laboratorio da destinare a coloro che sono più inclini a effettuare un percorso di apprendimento su lavoro.
Senza i grandi obiettivi che spesso connotano (e rovinano) i progetti sociali e senza troppe pretese (l’investimento sarebbe minimo rispetto a altre linee di intervento), assecondando con le dovute misure ciò che già è, i senza fissa dimora si trasformerebbero in residenti all’interno di città a misura di persona, a misura di tutte le persone.
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[1] Il dormitorio pubblico (CPA – Centro di Prima Accoglienza), l’Istituto La Palma e il Centro La Tenda.
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Nota sugli autori
Nives Monda vive nel centro storico di Napoli dove gestisce una piccola osteria di quartiere. Economista, ha studiato i processi di sviluppo dal basso dei primi anni ’90 e ha lavorato venti anni per istituzioni locali e centrali nella programmazione e nel controllo degli interventi pubblici territoriali finanziati dai Fondi Europei. Ha svolto attività di volontariato con bambini e ragazzi provenienti da quartieri periferici a emergenza abitativa e sociale.
Para citar este artículo: Nives Monda. Senza fissa dimora. Crítica Urbana. Revista de Estudios Urbanos y Territoriales Vol.3 núm. 12 Derecho a la vivienda. A Coruña: Crítica Urbana, mayo 2020. |