Por María Francesca de Tullio |
CRÍTICA URBANA N.24 |
In un’epoca di ‘sfiducia’[1] nelle forme rappresentative, i commons sono connessi alla partecipazione, in quanto sono diventati un modo per ripensare la soggettivazione politica. Così nascono i ‘beni comuni emergenti’[2] , cioè commons percepiti e rivendicati come tali non solo per la loro natura e funzione, ma anche per il loro governo, caratterizzato dalla gestione diretta o partecipata delle comunità, funzionale alla tutela dei diritti fondamentali.
La ‘crisi della rappresentanza’ fa emergere però anche un campo di battaglia per i commons. Da un lato, la relazione con le istituzioni è talvolta compromessa da rappresentanti che attivano forme partecipative deboli, per ricercare legittimazione e consenso senza una cessione sostanziale di potere. Dall’altro lato, l’indebolimento degli organismi eletti lascia spazio alla deregolamentazione, alla privatizzazione e, quindi, alle disuguaglianze.
Patrimonio, debito e democrazia locale
I commons investono il rapporto tra democrazia e controllo collettivo delle risorse, che oggi è contestato dalla cd. ‘trappola del debito’.
Lo stato di bisogno del debitore consente ai creditori di determinare in sostanza le condizioni economiche del prestito[3], ma anche le riforme da attuare per garantire la restituzione. Si tratta di rimedi – come privatizzazioni e tagli alla spesa pubblica – che mirano a un attivo di cassa, ma non garantiscono l’emancipazione del debitore, bensì impoveriscono il patrimonio pubblico e le risorse da investire per i diritti fondamentali[4]. Così il debito diventa il pretesto per erodere l’autonomia del pubblico attraverso il predominio della ragione ‘contabile’ del pareggio di bilancio.
Questo è quanto si è verificato anche nell’Unione Europea, specie dopo la crisi del 2008. Le istituzioni eurounitarie– in particolare con il cd. Fiscal Compact – hanno imposto agli Stati il pareggio di bilancio ritenendolo condizione necessaria e sufficiente per favorire la crescita[5]. Tale assunto è stato confutato tanto a livello scientifico[6], quanto a livello fattuale, in un’Europa che ha stentato a uscire dalla crisi. Tuttavia, ha imposto un indirizzo politico capace di minare in radice la possibilità di un controllo e destinazione sociale delle risorse pubbliche.
In Italia tali limiti e vincoli all’indebitamento sono stati introdotti anche in Costituzione (art. 81 Cost.), tanto per lo Stato centrale quanto per le sue articolazioni territoriali. In particolare, anche i Comuni si sono visti ridurre le capacità di spesa e tagliare ai trasferimenti dallo Stato centrale[7]. Così, l’urgenza principale per questi enti locali è diventata quella di ‘fare cassa’ per evitare il dissesto, con ovvie ripercussioni sulla possibilità di spendere per adempiere ai doveri sociali.
Nella stessa logica rientra la spinta alla vendita o messa a reddito del patrimonio immobiliare, che ha compromesso la possibilità di utilizzare quest’ultimo come risorsa per attività sociali, civiche e culturali. Emblematico è il ‘federalismo demaniale’ (D.lgs. 85/2010), che ha considerato i comuni come un’ ‘agenzia immobiliare’ dello Stato[8]: la normativa ha favorito il trasferimento a titolo gratuito di alcuni beni demaniali dello Stato agli enti territoriali, con finalità di valorizzazione economica o vendita (art. 9), destinata a risanare i bilanci locali e in parte quelli centrali.
In questo contesto, i beni comuni emergenti in tutta Italia hanno realizzato una risposta immediata al bisogno, riappropriandosi degli spazi per realizzare attività solidali e condividere i mezzi di produzione. Il mutualismo è stato però anche uno strumento per costruire nuove modalità di autorganizzazione, capaci di innovare le istituzioni, formulare nuove proposte politiche e rivendicare una discussione pubblica sulle risorse.
Il beni comuni emergenti e a uso civico a Napoli
Il caso napoletano è emblematico rispetto al contesto descritto, in quanto la dinamica conflittuale inaugurata dai beni comuni emergenti ha portato a un mutamento istituzionale anche formale. Ciò è avvenuto nel contesto di un’area svantaggiata, quella del Mezzogiorno d’Italia, e in una città dal fragile equilibrio di bilancio, il cui destino è inevitabilmente segnato dalla ‘trappola del debito’.
Il percorso a Napoli è iniziato nel 2012 con l’occupazione di un immobile di proprietà comunale, l’ex Asilo Filangieri[9], da parte di lavoratori e lavoratrici dell’arte, della cultura e dello spettacolo. L’immobile si trova in pieno centro storico, dove ben presto sarebbe diventato un luogo ‘franco’, in un quartiere segnato dalle dinamiche di espulsione tipiche della gentrificazione e turistificazione. Il bene scelto era emblematico, in quanto – in una città che viveva in una forte scarsità di luoghi culturali – era tenuto in stato di sottoutilizzo, come sede concessa a una Fondazione incaricata di organizzare un grande evento culturale. Ciò lo rendeva teatro ideale per un’occupazione che voleva essere inizialmente simbolica, in polemica con la precarietà del settore e l’assenza di politiche ridistributive. Successivamente, l’esperimento è diventato un susseguirsi di assemblee pubbliche dove partecipano artisti/e, attivisti/e di diversa estrazione, ricercatori e ricercatrici interdisciplinari, ma anche abitanti della città.
La stessa comunità ha poi deciso di aprire lo spazio come bene comune per la città. A tal fine, ha elaborato con il metodo del consenso delle regole di fruizione e gestione dello spazio, basate sulle pratiche concrete che si stavano sperimentando. Oggi l’Asilo è un centro culturale e uno spazio polifunzionale gestito con assemblee aperte a chiunque, in regime di uso mai esclusivo, ma in condivisione o turnazione. Al suo interno si svolgono attività come laboratori artistici, prove teatrali, lavoro in co-working nelle arti visive e performative, presentazioni di libri, lavori di ricerca, assemblee di diverse realtà politiche e sociali e tanto altro, in aderenza ai principi di antifascismo, antirazzismo e antisessismo. All’uso del bene può accedere chiunque senza prezzi vincolanti e senza una direzione artistica: gli spazi sono mezzi di produzione condivisa, che consentono modalità di lavoro cooperative, oltre ad abbattere i costi di produzione.
L’Asilo ha rivendicato un riconoscimento giuridico, non con gli strumenti preesistenti – inadatti a una comunità che si voleva informale e potenzialmente illimitata – bensì con un istituto nuovo, l’ ‘uso civico e collettivo urbano’. L’istituto è stato elaborato dalle stesse assemblee in una zona grigia: pur non essendo espressamente menzionato da alcuna normativa, aveva un impianto valoriale che trovava diretta legittimazione nella Costituzione (Art. 3, secondo comma, 42, 43, 48, 49, 118, comma 4).
Rifiutando l’assegnazione esclusiva del bene, la comunità ha trascritto le proprie modalità di autogoverno in una Dichiarazione d’uso civico e collettivo urbano, poi riconosciuta dal Comune di Napoli con proprie Delibere di Giunta (nn. 400/2012 e 893/2015), dopo una lunga e accesa negoziazione. Il Comune – prendendo atto del valore sociale e culturale dell’esperienza – si è impegnato a garantire l’accessibilità del bene, facendosi carico tra l’altro delle utenze e dei lavori straordinari, oltre che di alcuni orari di custodia.
Questo lavoro di ‘uso creativo del diritto’ non serviva semplicemente a regolarizzarsi, ma per creare precedenti che potessero supportare anche altre esperienze e promuovere nuove politiche per la gestione del patrimonio. Infatti, il precedente è stato replicato per altri sette beni comuni (delibere Giunta comunale n. 446/2016, 297/2019 e 424/2021): il Lido Pola, l’ex OPG, l’ex Schipa, il Giardino Liberato, Santa Fede Liberata, Villa Medusa, lo Scugnizzo Liberato. Altri stanno chiedendo il riconoscimento con lo stesso regime: il CAP80126 – Centro Autogestito Piperno, la Casa delle Donne, Villa De Luca e l’ex Convitto delle Monachelle. Si tratta esperienze di natura e vocazione diverse, situate in diversi territori della città metropolitana. Grazie a reti nate spontaneamente tra esperienze sociali, l’uso civico è rivendicato oggi da diverse realtà in tutta Italia, che – riunitesi nella Rete nazionale dei beni comuni emergenti ad uso civico – hanno innescato un processo di scambio e mutuo apprendimento, che è arrivato a confezionare sei proposte per un percorso giuridico di lotta per i beni comuni a livello nazionale[10] e avviato la costruzione coordinata di emendamenti ai regolamenti sui beni comuni a livello locale. Così, l’uso civico e collettivo urbano è stato introdotto, accanto ad altri strumenti giuridici, nel Regolamento sui beni comuni di Padova.
Dalla rete napoletana dei commons sono nati anche nuovi organi pubblici cittadini: l’Osservatorio permanente sui beni comuni e la Consulta di Audit sul debito e sulle risorse della città di Napoli. Si tratta di istituzioni consultive ma non tecnocratiche, composte da persone con comprovata esperienza di attivismo politico-sociale, con l’obiettivo di supportare i processi di autonormazione e riconoscimento dei beni comuni e aprire una discussione pubblica sul debito della città.
In conclusione, i beni comuni emergenti sono stati una vera e propria modalità di democrazia partecipativa, caratterizzata dal fatto di organizzare la propria proposta politica attraverso il mutualismo e il ‘fare comune’ quotidiano. Queste pratiche hanno posto in concreto tutti i problemi e conflitti propri della democrazia: i privilegi e gli approcci competitivi, le gerarchie nascoste che sempre tendono a crearsi, le ‘relazioni pericolose’ con l’autorità pubblica e con il mercato, la creazione e distribuzione di reddito… Tutte questioni che, a partire dal microcosmo di una pluralità di spazi, hanno consentito di sperimentare una tensione costante verso forme di vita comunitaria orizzontali e non competitive, nonché strategie per una democrazia capace di partire dalle voci più marginalizzate altrove.
Le sfide aperte nella Napoli post-pandemica
I beni comuni nascono come forma di conflitto e rivendicazione e tali rimangono anche dopo il riconoscimento. Per questo, sono minacciati ogni giorno da reazioni autoritarie e tentativi di normalizzazione e riconduzione al mercato speculativo. Questi ultimi fanno leva su almeno due meccanismi: il commons washing, consistente nel denominare come bene comune esperienze top-down, e il Commons fix[11], la strumentalizzazione dei commons come ‘cuscinetto’ per assorbire il disagio e anestetizzare il conflitto sociale.
Questi fenomeni sono amplificati, oggi, dagli investimenti post-pandemici e dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Questi ultimi, infatti, pur ampliando la spesa pubblica, non abbandonano il sistema delle condizionalità, descritto sopra. Esempio chiaro ne è il cd. ‘Patto per Napoli’, che – in base alla l. 234/2021 – garantisce nuovi fondi per la città, ma solo se il Comune si impegna a un insieme di misure miranti alla razionalizzazione del settore pubblico e della spesa amministrativa.
A ciò si aggiungano le barriere talvolta escludenti del PNRR. Come espresso dall’Osservatorio sui beni comuni nel suo Rapporto 2018-2022, nel contesto attuale «la politica è assente dalle tradizionali sedi del dibattito democratico, e agisce sempre più tramite la governance complessa e difficilmente accessibile del PNRR. In alcuni casi, le comunità dei commons si sono riposizionate, avendo messo in gioco le loro capacità relazionali, avendo, in altre parole, aggiornato dall’interno le loro capacità istituzionali. In altri casi, le comunità stanno subendo l’irrigidimento della stessa governance che adotta criteri di selezione escludenti (ad esempio, accede ai finanziamenti solo chi è già capace di cantierare i progetti), in quanto formulati su misura delle grandi istituzioni universitarie e del mondo privato dell’industria».
Al tempo stesso, la sfida dei commons oggi è porre un problema che va al di là dei singoli beni in cui nascono, e mira ad affermare una diversa concezione del patrimonio e dello spazio pubblico e abitativo, come luoghi destinati a rispondere ai bisogni sociali – acuiti dalla pandemia – prima che all’esigenza di risanare il bilancio. In questo senso, la gestione aperta e accessibile del patrimonio resta una frontiera centrale dei diritti fondamentali.
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Notas
[1] P. Rosanvallon, La contre-démocratie: La politique à l’âge de la défiance, Seuil, Parigi, 2006.
[2]G. Micciarelli, I beni comuni e la partecipazione democratica. Da un “altro modo di possedere” ad un altro modo di governare”, in Jura Gentium, IX/2014, pp. 67-69.
[3] E. Toussaint, Le système dette. Histoire des dettes souveraines et de leur répudiation, LLL – Les Liens qui Liberent, Paris 2017.
[4] I. Bantekas – C. Lumina (a cura di), Sovereign Debt and Human Rights, Oxford University Press, Oxford 2018; R. Chimuris, Neocolonialismo jurídico, in R. Chimuris – J. Menezes – D. Libreros (a cura di), Las deudas abiertas de América Latina, La Città del Sole, Napoli 2020, pp. 264 ss.
[5] C.M. Reinhart – K.S. Rogoff, Growth in a Time of Debt, in American Economic Review: Papers & Proceedings, 100/2010.
[6] T. Herndon – M.A.R. Pollin, Does High Public Debt Consistently Stifle Economic Growth? A Critique of Reinhart and Rogoff, in Cambridge Journal of Economics, 38(2)/2014.
[7] G. Rivosecchi, Autonomie territoriali e assetto della finanza locale, in Federalismi.it, n. 22/2017, p. 11.
[8] S. Repole, L’esperienza dell’Osservatorio sul Bilancio Comunale di Livorno, in AttacItalia.org, disponibile all’indirizzo: www.attac-italia.org, 13 febbraio 2016.
[9] Per una ricca bibliografia sull’esperimento, cfr. http://www.exasilofilangieri.it/approfondimenti-e-reportage/.
[10] https://www.retebenicomuni.it/2021/01/08/proposte-per-un-percorso-giuridico-di-lotta-per-i-beni-comuni/.
[11] M. De Angelis, Does capital need a commons fix?, in Ephemera, vol. 13(3)/2013.
Nota sull’autore
Maria Francesca De Tullio. Ricercatrice in Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Napoli Federico. È stata ricercatrice post-doc presso l’Università di Antwerp e presso l’Université Paris 2. È componente della RICDP – Red Internacional de Cátedras, Instituciones y Personalidades sobre el Estudio de la Deuda Pública. Fa parte della comunità de l’Asilo e dell’Osservatorio permanente sui beni comuni della città di Napoli.
Para citar este artículo:
María Francesca de Tullio. Beni comuni e partecipazione politica. Il caso napoletano. Crítica Urbana. Revista de Estudios Urbanos y Territoriales Vol.5 núm. 24 Participación: Mito o realidad. A Coruña: Crítica Urbana, junio 2022.